di Candida Morvillo Pubblicato dal Corriere della Sera
Sono le quattro del pomeriggio, Marco Giallini apre la porta, si scusa per il disordine, si offre di fare gli spaghetti. Sposta un giubbotto di pelle lanciandolo su uno gemello, che sta su un cumulo di vecchi cuscini, chitarre, vinili rock, forse tulipani. «Mi fanno ridere quelli che si fanno la foto col chiodo. Io non so come mettermi quando faccio le foto». Mima una posa da social. «Io i giubbotti li ho perché vado in moto. Mica per quell’iconografia rockettara degli stilisti e dei ragazzi che si fanno crescere la barba, che quando se la taglieranno, come diceva quella, una mia amica: capirò quanti mostri ho baciato».
Il disordine non è proprio disordine, è più come se in questa mansarda alla periferia di Roma un’esplosione avesse scaraventato roba fin sul pianerottolo. Aveva avvisato che è in corso un trasloco. Chiedo conferma. «Sta traslocando?». «Io? No». Sposta una tela e dei pennelli. Dipinge, anche. Il ritratto dell’attore Toshiro Mifune risale al primo lockdown. «Sa quelli che pensano che sono attore? Dicono: tu a casa hai la signora. Ma quale signora? Pure coi miei figli… Mai avuto una tata. Io sono tato. Qui faccio tutto io. Qui le donne mi menano e poi se ne vanno». Sposta ninnoli e vecchie foto in una vetrina, indica tre statuine di lupi: rappresentano lui e i due figli che ha cresciuto da solo dopo la morte della moglie. «Di là ci sta una batteria da paura. Suono un po’ di tutto. Però so recitare pure mezza Divina Commedia a memoria». Locandine di film non ce ne sono. Eppure ne ha girati oltre 50, più una quindicina di serie. I premi, per Acab di Stefano Sollima, Tutta colpa di Freud e Perfetti Sconosciuti di Paolo Genovese, per Io, loro e Lara e Posti in piedi in Paradiso di Carlo Verdone e per la serie Rocco Schiavone di Raidue, stanno in una vetrina a parte. Col suo addetto stampa ci siamo persi sul raccordo anulare, senza che sapesse dirmi dove mi stava portando. Giallini, dal terrazzo, indica, lontano, il cupolone. Ma oggi è brutto e non lo vedo.
Giallini, dove siamo?
«Ci vuole meno di quello che sembra per far star bene gli altri. No? È solo che la gente è avida. Chi l’avrà fatto Dio? E come? Per autocombustione? Col Das, forse».
Perché, di colpo, parla di Dio?
«Mi hanno chiamato Dottor Divago. Divago molto. Parlavamo di giubbotti, ci vado in moto. Come si nota dagli sgarri che ho addosso».
Intende cicatrici?
«Cinquantadue fratture in un colpo solo. Mi sogno a volte l’attimo che pinzo. Io vado forte. Nelle borgate, ci si giocavano anche i denari, andando a 200 o 240 all’ora».
Cadde in una di queste gare?
«No, correvo verso casa, sul bagnato. In moto so andare a un livello che pensavo di essere un dio, finché ti rendi conto che le cose possono accadere. Un amico ha detto: Giallini ci scrive con la moto. Sentirmelo dire mi fece piacere. Più della signora che al festival di Venezia mi disse: sono anni che sto qua, è la prima volta che sento ridere. Io non ce la faccio a non dire una stupidata per far ridere la gente che sta seria. Perché stanno tutti così? Stiamo come in una dittatura dell’individuo, dell’io».
Cos’è la dittatura dell’io?
«Tutti con ’sti labbroni, tutti con ’ste fotografie, cos’è Facebook? Il libro delle facce… Ma a me che importa che faccia c’hai? Ma perché non ti posso incontrare per strada? Sa la verità? Che io non posso sobbarcarmi tutto».
Tutto che cosa?
«L’animo gentile, l’animo vicino a Dio, prende tutto. Perché è sensibile, perché ha uno sbaglio di sangue, di vene, di capoccia».
Quando ha capito che ha l’animo gentile?
«Da bambino. Quando vedevo tutti felici a casa. Papà, dopo dieci ore di lavoro, tornava in un buco, morto di fatica, un po’ bevuto per non sentire, non capire, e mi faceva l’occhiolino e tutti ridevano, e io facevo finta di andare in bagno e mi veniva da piangere. L’ho capito anche con mio nonno, che non era mio nonno, Ercole si chiamava, era una persona misteriosa che ci tenevamo dentro casa. Un giorno, avevo 9 anni, passiamo insieme davanti a un boss del quartiere. Tornava da caccia con la doppietta. Ercole mi fa: ahò, non gli stare vicino a questo, che ti dà una revolverata. E il boss disse solo: buongiorno, Ercole. A un altro, l’avrebbe accoppato, i meccanismi erano quelli. Ho pensato: ma chi è Ercole? Mi è rimasto il mistero. Chiedevo a mio padre. Niente».
Come arriva l’idea di fare l’attore?
«Stavo lì, ragazzino, la testa che ti senti che ti va tutto stretto. Il tempo passa. Gli amici mi dicevano: ma perché non fai l’attore? Ero quello che, se c’è Giallini, andiamo, se non c’è, dove andiamo? Non è una bella cosa, anzi: è come se tutti avessero bisogno di te, è un po’ dura. Alla fine, ti rompi e ti chiudi qua. Alla fine, io sto in lockdown da quando è morta Loredana»
A luglio, sono dieci anni.
«Quello è il momento in cui ho deciso di diventare popolare. L’ho deciso proprio, perché sarei uno che s’adagia, sono pigro, ammazza come sono pigro. Nel senso che ancora aspetto di giocare con la Roma. Ero arrivato qui, a Tor Lupara, per Loredana. Ci siamo messi in 40 metri, non eravamo abbienti. Ci siamo sposati nel ’93, facevo teatro e altri lavori, però avevo ripreso la scuola, mi ero iscritto a Lettere e a scuola di recitazione. Ero diventato bravo, colto, oltre che bandito».
Quanti sacrifici ci sono voluti?
«Facevo l’imbianchino, otto ore. E la sera, la scuola di teatro. Poi, otto ore erano troppe. Ho iniziato a portare il camion delle bibite, la mattina. Dopo, tornavo a casa, doccia, prendevo il mio Yamaha, andavo a scuola. Parcheggiavo contro il muro, non avevo manco il cavalletto e entravo, col chiodo, i capelli lunghi. Boom! A volte, mi prendevano per uno spettacolo. Un giorno, per strada, avevo il cappello di carta da muratore, incontro un collega attore. Mi guarda: ma che fai? E io: stamo a fa’ un film».
Teatro ne ha fatto tanto. Il cinema è arrivato tardi: primo film a 35 anni, diretto da Marco Risi ne «L’Ultimo Capodanno».
«Però sono esploso ancora dopo, a 49, con il Nastro d’argento per Acab e la nomination ai David per Posti in piedi in Paradiso. Prima, quando c’era Loredana, avevo fatto 35 tra film e serie, però ero secondo, terzo attore: se sei primo, i progetti li fanno su di te. Lei ha visto solo l’inizio. Sul primo contratto, legge la “rata film”, la prima di dieci, ma pensava fosse tutto lì. Dice: solo questo? E io: no, devi mettere un altro zero. Le vennero le lacrime. Bello o no?».
Ha deciso di diventare popolare solo da vedovo per riempire il tempo e non pensare?
«Per dare una possibilità in più ai figli. Dovevo tirarli su come ci eravamo promessi. Lei voleva che facessero il Classico, uno lo fa, l’altro l’ha finito: è una cosa stupenda, chi fa il Classico si riconosce da lontano».
Mancata sua moglie, come ha fatto con due figli di 12 e 5 anni e di che aveva paura?
«Che ne so, il dolore era troppo. Il pensiero che lei rientri a casa da un momento all’altro dura due anni, poi, capisci che morire è prassi. Non a 40 anni. Non fra le mie braccia, mentre prendiamo le valigie per le vacanze. Ma non sono l’unico a cui è successo. Fare a meno è questione di testa, anche fare a meno delle menti dei bimbi non più chiare, del loro pensiero: vorresti sapere che pensano il giorno della festa della mamma o quando spegni la tv e quello, a 5 anni, strilla: mamma mamma».
Quanto è stato duro fare Schiavone?
«Fatico a farlo perché è il personaggio che più si avvicina a me, per carattere, retaggio, per la nota vicissitudine. La gente crede che più somigli e più è semplice, ma è il contrario: i migliori elogi li ho presi facendo il borghese. Mi sono piaciuto, in Io sono tempesta, quando al centro poveri dico a Elio Germano “se vuoi otto euro fatteli dare dal mio autista, c’è una Maserati qui fuori”. E lui : di che colore? E io lo guardo come a dire: ma quante Maserati vuoi che ci stanno fuori al centro poveri?».
PUBBLICITÀ
Com’è fatta la popolarità?
«Al Festival della Letteratura di Mantova, duemila donne hanno rotto le transenne. Sono saltato giù dal palco come Ringo Starr. Pure per questo non abito in centro: c’è troppa gente e io a uno che per vedermi al cinema con la famiglia spende 40 euro non so dire “la foto no”. Gliel’ho già chiesto chi ha fatto Dio?».
Sì. Forse l’han fatto col Das. Diceva.
«Ci accaloriamo su troppe cose da niente, i social, il politically correct, quando la gente non mangia, non può dare il latte a un ragazzino. Di questo ci si deve occupare. Io che pago di tasse? Dieci? Ne pago 12 e quei due li dai a chi non ha una lira: è così difficile?».
Le capita ancora di piangere di nascosto?
«Come tutti, come i veri duri. Perché lo sono. Se no, sarei morto».
© RIPRODUZIONE RISERVATA